lunedì 3 maggio 2010

L'Anima della Terra - Parte III (Le Storie Infinite - Parte V e VI)

Disastro Sulla Costa. Il giornale non dava mai buone notizie. Durante la notte una nave da crociera ha subito un’anomalia ai motori. 12 morti, 75 feriti. “Che bel modo per iniziare la giornata”, pensò Arthur. La notte precedente era stato assalito da incubi misti a ricordi. Creature come quella in cui si era imbattuto la notte precedente, lo minacciavano ed uccidevano tutte le persone a lui care. “Peccato che in realtà siano già tutte morte”. Posò il giornale sul comodino a fianco al suo letto. Non era in grado di alzarsi. Guardò fuori. Era una bella giornata. Il sole era caldo ed il vento mite. L’autunno sembrava ancora lontano. Ripensò alla ragazza. Dove si trovava in questo momento? Avrebbe voluto alzarsi ed andare a cercarla, ma sapeva di non poter mettere ulteriormente sotto sforzo il proprio corpo. “Stai invecchiando!”. Si sforzò di sorridere. Tornò a guardare dalla finestra, ripensando al rapido susseguirsi degli eventi. Avrebbe scoperto cosa stava accadendo. Non aveva molto tempo. Avrebbe fatto il possibile nella sua condizione. Chiamò un infermiere e si fece portare una serie di fascicoli dalla centrale. Sapeva che William non avrebbe creato problemi. Finché non ne avesse creato uno lui. Decise di partire da dove aveva interrotto le sue ricerche. I disastri navali sembravano un buon punto da cui iniziare. In fondo i suoi problemi in questa faccenda erano iniziati proprio con il primo di questi disastri. Non era ancora venuto a capo delle autopsie. Pensò alla creatura e si domandò se potesse essere coinvolta. Indubbiamente sarebbe stata capace di creare quel genere di danno. Rimaneva da capirne il motivo. Da dove veniva un mostro simile? Perché aveva attaccato un peschereccio, ammesso che fosse stata opera sua? Che legame aveva con quella ragazza e la sua famiglia? Queste e molte altre domande urlavano nella sua testa in cerca di una risposta. Le ferite gli causavano brevi ma intense fitte di dolore che contribuivano a calare il suo livello di concentrazione. L’unica consolazione di quella giornata sembrava essere proprio quel sole caldo.

Anna riaprì gli occhi. Non sapeva da quanto tempo si era addormentata. Aveva perso ogni cognizione di tempo. Il sole era alto e caldo. Guardò i propri abiti laceri. Aveva bisogno di cambiarsi. Le ritornò in mente l’accaduto della notte precedente e scoppiò in lacrime. Notò solo allora l’uomo che si trovava al suo fianco. Era una persona malandata, un barbone probabilmente. Aveva una ciotola ai suoi piedi con alcune monete. Sembrava molto triste. I suoi occhi erano di un azzurro molto intenso. Anna si ritrovò a fissare il suo sguardo per un tempo che le parve interminabile. Quando si rese conto di quello che stava facendo, imbarazzata, tirò fuori di una tasca una moneta e la aggiunse al mucchietto. Si asciugò le lacrime ed iniziò a camminare, senza una meta precisa. Dov’era suo padre? Barcollò e sentì il proprio corpo indebolito. Doveva mangiare qualcosa, nonostante la sua mente avesse problemi più grandi da affrontare. Non ricordava esattamente cosa era successo la notte prima. Cercò di rimettere insieme i frammenti della sua memoria ma non vi riuscì. Era tutto ancora troppo confuso. Ricordava solo la casa distrutta, poi sua madre…
Il ricordo le portò nuove lacrime. Non riusciva a credere di aver visto il corpo di sua madre sotto le macerie. Voleva convincersi che fosse soltanto svenuta. Se così era, probabilmente era ancora in vita…
Anna sobbalzò ed iniziò a correre. Doveva tornare a casa. Sua madre poteva aver bisogno di lei.
Corse a perdifiato, più volte fu sul punto di perdere i sensi. Il sole era alto e sempre più caldo. Anna tentò di ignorare la fatica ma, suo malgrado, dovette fermarsi più volte per riprendere fiato. Quando arrivò sulla strada che l’avrebbe condotta a casa, poco fuori città, il suo corpo era distrutto dalla fatica. Inciampò e cadde più volte lungo la strada. Si ferì al braccio ed alla testa ma si impose di continuare a camminare. Era arrivata ormai. Presto avrebbe aiutato sua madre ad uscire dalle macerie e se ne sarebbero andate, insieme. Cadde ancora una volta. Non riuscì più a rialzarsi. Continuò strisciando verso quello che rimaneva della sua casa. C’erano delle persone lì intorno. Non riusciva a distinguerle. Le parve di intravedere suo padre tra loro. L’avevano notata. Ben presto furono su di lei, parlavano tutti velocemente e lei non riuscì a capire cosa dicevano. Voleva vedere solo sua madre. C’era anche lei tra quelle persone? Chiuse gli occhi prima di avere una risposta.

"Signor Wils, c’è una visita per lei". L’infermiera di turno aprì la porta della sua stanza e lasciò entrare un uomo tozzo in preda alla calvizie.
"Benvenuto, William"
"Arthur…", William Grey lo salutò con un cenno del capo ed iniziò a torturare un sigaro.
"Qualcosa non va, William?". Arthur non poté fare a meno di notare la sua irrequietezza.
"Beh… oh al diavolo! Sono venuto a dirti che abbiamo trovato la ragazza che stavi cercando", disse in fretta.
Arthur sentì un tuffo al cuore.
"Come sta? Dov’è adesso?". La sua voce tradì la sua apparente calma.
"Proprio qui. In questo ospedale. L’abbiamo trovata questa mattina nei pressi della sua abitazione. Era sconvolta e ferita.".
Arthur scrutò il capitano molto attentamente, aspettando una reazione.
"Arthur… so che non vuoi parlarne… ma la faccenda si sta complicando. Cos’è successo in quella casa, ieri notte?". Il capitano evitò lo sguardo del suo subordinato, mostrando la sua mancanza di coraggio.
"Te l’ho già detto cosa è successo, William". Arthur non era disposto a cedere.
"Oh andiamo, Arthur!". Il capitano si voltò verso di lui. "Sappiamo entrambi che le fondamenta di quella casa erano stabili quanto la terra stessa! Cos’è successo realmente?"
Arthur inspirò profondamente. Sapeva che sarebbe accaduto. Ora doveva solo cercare le parole più adatte.
Attribuì la distruzione della casa ad una bomba. Cercò di far passare l’accaduto per un attacco terroristico o mafioso. Non aveva intenzione di cedere fino in fondo. Sapeva che se avesse parlato della creatura al capitano sarebbe finito in un manicomio.
"Probabilmente proprio chi ha causato questo" ed indicò il fascicolo che stava leggendo "ha voluto farmi capire che c’è qualcosa di grosso e che farei meglio a starne alla larga". Arthur finse un sorriso. Il peggiore della sua vita, probabilmente.
L’espressione del capitano Grey divenne cupa ed enigmatica. Arthur non era sicuro di essere riuscito a convincerlo, ma non poteva fare di più.
Il capitano ruppe il silenzio per primo.
"Cosa hai intenzione di fare adesso?"
"Continuerò le indagini, mi sembra ovvio…"
"Capisco… c’è altro che ti serve?". L’espressione del capitano era cambiata. Sembrava seccato dall’atteggiamento del suo subordinato.
"Solo una cosa… quando sarà possibile, vorrei interrogare la ragazza riguardo gli avvenimenti della notte scorsa".
Il capitano annuì. "Nient’altro?"
"Per ora no… ho tutto quello che mi serve". Arthur si pentì quasi subito di tale freddezza. "Grazie", aggiunse.
William si sforzò di sorridere, senza tentare in alcun modo di nascondere il proprio dissenso. Arthur era consapevole di stare navigando in acque alquanto agitate e non sapeva quanto a lungo avrebbe potuto continuare con queste menzogne.
Il capitano annuì e si diresse verso la porta.
"Cerca di rimetterti in fretta, Arthur".
"So bene che senza di me la baracca non va avanti, William".
Il capitano sorrise. "Tienimi informato se scopri qualcosa. Stando a quanto dicono i medici, la ragazza dovrebbe rimettersi in un paio di giorni al massimo".
"Grazie ancora, William… sul serio".
Il capitano uscì dalla stanza senza dire altro.
Arthur lo seguì con lo sguardo. Quando fu di nuovo solo nella stanza, riprese il fascicolo e tornò ad analizzare gli eventi. Si sentì molto sollevato nel sapere che la ragazza si trovava al sicuro in ospedale. Solo per un attimo lo sfiorò il pensiero che quella creatura poteva essere ancora in circolazione. Se avesse voluto attaccare, però, lo avrebbe già fatto. Il pensiero però non lo faceva rimanere tranquillo. Restò sveglio fino a notte fonda. Non riuscì a venire a capo di nulla. Mancava ancora un nesso tra la creatura e la famiglia Cooper. Dalle autopsie e dai rapporti della scientifica, inoltre, non risultava alcun segno di quella creatura. Non aveva fatto progressi per tutto il giorno. Le ferite ed il mal di testa gli consigliarono di prendersi una pausa. “Solo qualche minuto”, si disse. Chiuse gli occhi e sprofondò in un sonno senza sogni.

Il sole era solo una pallida sfera alta nel cielo. Non sembrava emanare calore. Anna guardò il cielo terso per qualche istante. Inspirò profondamente e tornò a guardare di fronte a sé. Il profumo dell’erba umida e lo scrosciare dell’acqua nel ruscello alle sue spalle la inondarono di una gioia forte ed innocente. I suoi genitori la stavano chiamando. Corse rapidamente verso di loro, sorridendo come non ricordava di aver fatto prima d’ora. La loro presenza la rendeva felice. Non credeva che sarebbe potuto tornare quel momento. Senza rendersene conto, la notte era calata su di loro. Si trovavano nella loro casa sul mare. Il tempo era mite, gli animali notturni intonavano una morbida melodia. Il suo viaggio sembrava lontano, forse non sarebbe mai partita. Sarebbe voluta rimanere in quell’ambiente ovattato per l’eternità. Qualcosa non andava. Era tutto troppo perfetto. Improvvisamente, un rombo proveniente dall’esterno. Un lampo, poi il buio. Due occhi iniettati di sangue la scrutavano nell’oscurità. Anna riaprì gli occhi, madida di sudore. Dov’era?
Riconobbe le pareti grigie ed il letto rialzato. Capì di non trovarsi in casa. Si guardò intorno e vide altri letti come il suo, non era sola in quella stanza. Cercò di focalizzare la propria attenzione sugli ultimi momenti di lucidità. Ricordò gli occhi azzurri ed il colore scuro della pelle dell’uomo che si trovava al suo fianco l’ultima volta che aveva perso conoscenza. Ricordò poi la corsa verso casa, le persone lì fuori…
Nient’altro.
Fece mente locale e realizzò di trovarsi in una stanza d’ospedale. Probabilmente era svenuta. Osservò le ferite che le erano state medicate con cura e la vestaglia bianca che indossava. Non sentiva più quel senso di sporcizia che l’aveva accompagnata la notte precedente. Si sentiva molto debole, scoprì di non riuscire a muoversi liberamente e si costrinse a rimanere a letto. Spostò la testa di lato e guardò fuori della finestra. Era notte, la luna era l’unica cosa visibile dalla città. Le mancavano le sue stelle, le notti passate ad osservare gli astri, i sogni. Si costrinse a non piangere ripensando a quello che era accaduto. Costrinse il proprio corpo a rilassarsi, non avrebbe comunque potuto far nulla in quel momento. La stanchezza e la spossatezza erano tali da esaudire il suo volere. Si sentì chiamare da una voce familiare e riaprì immediatamente gli occhi. Un uomo di mezza età, in uniforme, capelli brizzolati, corti, berretto ed una postura che avrebbe fatto invidia ad una colonna. Anna riconobbe immediatamente suo padre. La sua espressione era sempre la stessa, immutata. La cosa l’aveva sempre resa isterica. Aveva l’impressione che il mondo sarebbe potuto crollare, ma suo padre sarebbe rimasto in piedi. Lo guardò a lungo ed aspettò che fosse lui ad iniziare la conversazione.
"Come stai, bambina mia?", abbozzò un sorriso.
"Ora sto meglio…". Attese alcuni secondi prima di continuare. Non era sicura di voler conoscere la risposta alla sua domanda. Ma si rese ben presto conto di non poter fare altrimenti. "Dov’è la mamma?". La sua voce tradì la propria angoscia.
John Cooper non aveva mai versato una lacrima. E non era questo il momento per farlo. Anna avrebbe voluto picchiarlo, se solo ne avesse avuto la forza.
"La mamma è morta, Anna". La sua voce era sempre fredda e distaccata. Anna pensò per un istante che suo padre fosse fatto di ferro.
"Sia i medici che la polizia non sanno quale sia stata la causa effettiva della sua morte. Io stesso speravo che tu potessi dirmi qualcosa in più di quella notte…". Fece una breve pausa.
"So come ti senti, Anna. So quanto Catherina ti fosse vicina e quanto tu ci tenessi a lei. Mi rendo conto di non essere stato un buon padre, soprattutto a causa del mio lavoro. So che mi odierai per la mia assenza negli ultimi anni. Ma ora dobbiamo pensare a te, al tuo futuro. Guardami, Anna, e non piangere", disse asciugandole le lacrime dal volto.
"Devi essere forte. Devi riuscire a superare questo momento. Io ti darò tutto l’aiuto di cui avrai bisogno. Ti starò vicino. Avrai tutto ciò che reputi opportuno. Ma non perdere mai di vista i tuoi ideali… devi diventare ancora più forte… devi riuscire a portare a termine quello che avevi cominciato. So che vorresti evitarlo, ma ti consiglio di prendere seriamente l’idea di partire e continuare gli studi all’estero. Prendi tutto il tempo di cui hai bisogno. Quando ti sentirai pronta, però, ricordati chi sei, sii orgogliosa di te stessa, sempre a testa alta". Concluso il suo discorso, la abbracciò goffamente per poi alzarsi in piedi. Anna lo guardò come si guarda una marionetta durante una rappresentazione. Non riusciva a credere alle proprie orecchie. Smise di piangere, notando il senso di compiacimento nello sguardo del padre. Non gli avrebbe mai più dato la soddisfazione di osservarla in un momento difficile della propria vita. Lui vedeva solo quello che voleva, per lui tutto andava bene…
"Possibile che non te ne freghi proprio niente che la mamma sia morta?!" urlò all’improvviso. Non riuscì a controllarsi ulteriormente. Notò l’imbarazzo del padre nei confronti dei presenti, provando una sorta di macabro piacere nel veder crollare la maschera di ferro che lo avvinghiava.
"L’unica cosa che riesci a dirmi è di essere forte, tanto ormai lei è morta e non possiamo farci niente?" la sua voce tremava e permeava tutta la stanza. Nessuno dei presenti proferì una parola nei minuti successivi.
"Anna… non è il caso di…"
"Vattene via! Non voglio più vederti!" Anna osservò lo sguardo sbigottito del padre.
"FUORI!"
Non se lo fece ripetere. Se l’aspettava. Suo padre odiava queste manifestazioni troppo violente nei suoi confronti. Uscì rapidamente dalla stanza, senza voltarsi indietro nemmeno una volta.
Anna si asciugò le lacrime e guardò i presenti. Facce compassionevoli, sguardi tristi e malinconici che volevano consolarla in qualche modo, senza sapere come…
"Cosa avete da guardare?" sbottò lei alla vista di quella scena patetica.
Tutti si voltarono e tornarono immediatamente alle loro faccende personali. Anna li guardò uno ad uno. Non sapevano nulla di lei…
Si voltò di nuovo verso la finestra, stavolta guardando il sole che illuminava la grigia città. Affogando nel suo guanciale, pianse per un tempo che le parve infinito.

Arthur Wils mangiò a malincuore il cibo della mensa ospedaliera. Gli mancavano gli hot dog stracolmi di salse di tutti i tipi a cui era ormai abituato. Ne avrebbe pagato uno a peso d’oro pur di sostituirlo con quella schifezza. Quella notte non era riuscito a chiudere occhio. Aveva ancora in mente l’immagine della ragazza, Anna Cooper, pochi istanti dopo la tragedia. Il suo sonno era stato tormentato e vuoto. La testa gli doleva ed aveva fitte di dolore dovute alle ferite. Era venuto a conoscenza di tutti gli eventi da quella notte in poi, dalla morte di Catherina Cooper fino al ritrovamento della ragazza in stato confusionale. I medici gli avevano riferito che ora la ragazza stava bene ed era in compagnia del padre. Una notizia che gli portò un lieve senso di sollievo. Almeno non era sola in questo momento. I medici erano propensi a concedere un incontro, date le condizioni stabili di entrambi. Arthur, notevolmente tranquillizzato dalla situazione, riprese ad analizzare i rapporti dell’incidente marittimo da cui era partita la sua indagine. Era sicuro che fosse in qualche modo legato alla vicenda ai confini della realtà che aveva vissuto. Non si rese conto dello scorrere del tempo. Il sole era quasi tramontato quando il medico bussò alla porta della sua stanza.
"Avanti" esordì Arthur, pensando a quale medicinale gli volessero rifilare questa volta.
Un infermiere dall’apparenza molto giovane aprì la porta. Dietro di lui si faceva lentamente strada una giovane ragazza. Indossava un camice bianco e delle scarpe dello stesso colore. Arthur trasalì riconoscendo la sua espressione colma di tristezza.

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